lunedì 7 agosto 2017

Il concetto di Dharma nella Baghavad Gita


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“Tenendo conto del tuo dharma, non devi tentennare. Per un guerriero, non c’è niente di meglio che combattere il male. Il guerriero che affronta una guerra siffatta dovrebbe essere contento, Arjuna, perché essa si presenta come un cancello aperto per il cielo. Ma se non partecipi a questa battaglia contro il male, subirai l’onta, violando il tuo dharma e il tuo onore.” (Bhagavad Gita II, 31-33)

Spesso ci si chiede se e come l'insegnamento advaita (non-duale), punta di diamante della filosofia indiana, possa essere di vantaggio, o semplicemente recepito dalle menti occidentali estremamente speculative e dedite all'empirismo dualistico.  In effetti solo alcuni cercatori di verità, che santificano la loro esistenza alla ricerca di Sé,  sono veramente interessati alla Conoscenza ed alla Consapevolezza della unitarietà e inscindibilità della vita, manifestata nelle sue singole parti (individui) come in una sorta di ologramma che ripete in ogni sua frazione la conoscenza dell'intero.

Eppure nella tradizione induista esiste una scrittura di matrice non-dualistica che cerca di integrare un insegnamento di attuazione dharmica (espletamento delle proprie mansioni in armonia tra le propensioni innate e la spinta evolutiva) con la teoria dell'Assoluto che tutto contiene ed in cui tutto si manifesta per sua spontanea emanazione. Questo testo è la Bhagavad Gita, la parte più spirituale del poema epico il  Mahabharata.

Nella Bhagavad Gita viene affermato egualmente che "Tutto è Uno" e che l'Atman (L'IO Assoluto) è già perfetto in se stesso ed è presente, come intima natura, in ognuno di noi, ma allo stesso tempo vengono impartiti dei consigli (od istruzioni) sul come realizzare questa verità. In un certo senso nel testo  il saggio Krishna rivolgendosi metaforicamente ad Arjuna,  il suo discepolo, lo incita ad agire, come se il piccolo io (ego), che egli riconosce come il suo sé, fosse reale. Allo stesso tempo lo istruisce a non considerare come propri i vantaggi o gli svantaggi del suo agire ma come semplice conseguenza di un espletamento dharmico.

Questo atteggiamento interiore di agire con  "distacco" è considerato anche  nella dottrina buddhista dell’anatman, secondo la quale l’uomo è privo di ogni “io” e persino del Sé,  mettendo però in guardia il cercatore su tali  insegnamenti che possono, se divulgati indiscriminatamente e interpretati in modo non appropriato, produrre risultati decisamente deleteri. Nagarjuna stesso, grande logico buddhista e fondatore del Vacuismo o Via di Mezzo (Madhyamaka), avverte: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata».

Per questo, l'insegnamento di Krishna contiene indicazioni apparentemente contrastanti, a volte viene indicato l'Assoluto come unica realtà, tal altra si incita a considerare accuratamente le convenienze e le opportunità dell'agire dharmico.


Forse questo altalenare fra la libertà e la giustizia è ciò che veramente è necessario alla mentalità occidentale, il cui procedere diretto  in una linea retta, essenzialmente giustificato da ragioni contingenti ed utilitaristiche (definite anche scientifiche per dare loro un senso compiuto) ha fatto perdere agli individui la capacità di personale discernimento e discriminazione.

Ma la verità non è qualcosa che può essere trasmessa come una comune conoscenza delle cose esteriori, come un processo. La verità è la qualità dell'Essere e può essere sperimentata solo  direttamente e non raccontata.

I grandi misteri imperniati sul silenzio non si profanano impunemente. Accostarsi ad essi con leggerezza o credere di poterli trasmettere senza le dovute qualificazioni espone a gravi rischi: in primis la follia e la perdita dell’orientamento. Il linguaggio comunemente usato (vaikhari) possiede solo un quarto del potere della parola; i rishi vedici sostenevano che esso non può descrivere la traccia lasciata da un uccello nell’aria. Da ciò la necessità di percepire la propria vera Essenza attraverso la comunione empatica con un vero Maestro che ha realizzato in Sé la Verità.

Da ciò se ne deduce che anche la più raffinata scrittura, come può esserlo la Bhagavad Gita (per non parlare di scritture inferiori come la bibbia, i vangeli od il corano) non può trasmettere la Conoscenza, può solo risvegliare un interesse verso la ricerca da parte del lettore genuinamente interessato alla Verità.

Cosa questa  totalmente contraria ai dettami  delle religioni che si basano sul "libro", i cosiddetti testi  dogmatici "rivelati" che portano all’esasperazione del conflitto tra uomo e natura di matrice ebraico-cristiana, al nichilismo e materialismo impliciti in un certo buddhismo ritualistico e al dualismo camuffato da non-dualismo scaturente dalla cattiva comprensione della dottrina advaita in certa new age – che ritiene il mondo fenomenico una sorta di apparenza né reale, né irreale (maya). Queste posizioni oscurantiste  hanno favorito lo sviluppo di forme perniciose di scientismo riducenti la persona ad un mero meccanismo biologico.

Ed  è nella Bhagavad Gita che è possibile trovare alcune frasi molto esplicative sull’argomento, ovvero sul significato dell’agire nel mondo e della formazione del karma individuale, le quali  ovviamente vanno lette nella comprensione che anche tali insegnamenti sono un’ignoranza (mascherata da conoscenza) per cancellare altra ignoranza (che chiamiamo conoscenza empirica). Poiché… la spiritualità è qualcosa che riguarda l’interiorità dell’individuo e non può essere appresa da un qualsiasi libro. E questo è esattamente ciò di cui noi occidentali avremmo bisogno, impregnati come siamo di dogmatismo scientista o religioso.


Paolo D'Arpini

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