domenica 30 agosto 2015

Adriatico - La trivellazione al largo delle coste abruzzesi è una spada di Damocle



I ministri dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, e dei Beni culturali,
Dario Franceschini, agli inizi di agosto (2015) hanno firmato il
decreto che dà il via libera all’utilizzo del giacimento italiano di
petrolio (progetto: Ombrina Mare), in Adriatico al largo della costa
abruzzese. Il giacimento è contestatissimo da cittadini, comitati e
dalla stessa regione, da cui stanno partendo vari ricorsi al Tar.

La compagnia petrolifera Rockhopper Italia, per voce del suo
amministratore Sergio Morandi si dichiara invece molto soddisfatta
della decisione del governo che ha saputo superare le contestazioni
locali e in particolare dei comitati nimby ( termine dispregiativo che
vuol dire” non nel mio giardino”). Nei mari italiani, che sono di
competenza dello Stato e non degli enti locali di terraferma, da
decenni si estraggono greggio e metano in più di cento piattaforme,
gran parte delle quali sono in Adriatico, soprattutto davanti
all’Emilia-Romagna. Per il giacimento Ombrina, al momento è stato
chiesto uno sfruttamento di 6 anni dietro il pagamento di royalty allo
Stato e alla Regione Abruzzo in misura pari alle quantità estratte.

Quanto gas serra finisce nell’atmosfera dall’attività estrattiva di
una piattaforma petrolifera?

Ma a noi di Accademia Kronos, prima di ogni possibile presa di
posizione, viene il dubbio che i nostri mari abbiano tanto petrolio da
”renderci finalmente ricchi”. Lo abbiamo chiesto al nostro comitato
scientifico in cui sono presenti anche dei geologi, ma anche alla
professoressa Maria Rita D'Orsogna che è un fisico, docente
universitaria e ambientalista convinta. Ed ecco la risposta:

1. Il petrolio d’Abruzzo è poco, com’è in tutto il Mediterraneo.
L’estrazione del petrolio abruzzese non cambierà di molto lo scenario
energetico nazionale. Gli stessi interessati a pompare petrolio in
Adriatico hanno previsto che al massimo si ricaveranno fra i 20 e i 40
milioni di barili di petrolio da Ombrina. Considerato che l’Italia
consuma circa 1.5 milioni di barili al giorno, i conti sono presto
fatti: nella migliori delle ipotesi, e assumendo che verrà tutto
commercializzato in Italia, il petrolio estratto da Ombrina nell’arco
di 24 anni basterà a soddisfare in totale fra le 2 e le 4 settimane di
fabbisogno nazionale.

2. Il petrolio di Ombrina è di qualità scadente, ricco di impurità
sulfuree e di indice API 17. Questo indice varia dagli 8 delle Tar
Sands del Canada (il peggior petrolio del mondo) ai 40 del West Texas
e dei mari del Nord (fra i migliori). Ovviamente peggiore la qualità
del petrolio, maggiori sono gli impatti sull’ambiente. Sono proprio le
impurità sulfuree a dare maggiori problemi perché causano corrosione e
difficoltà di trasporto del greggio, rendendo necessaria la
desolforazione – l’eliminazione dello zolfo – in loco, vicino al posto
di produzione.

3. Ecco allora la necessità di usare una FPSO – una “nave
galleggiante” che verrà posizionata a 9 Km dalla costa. La sigla FPSO
sta per “Floating Production Storage and Offloading” unit, cioè unità
galleggiante di stoccaggio, trattamento, e scarico. Il petrolio non si
separerà magicamente da acqua e gas come “qualcuno” vorrebbero farci
credere, servirà invece una delicata operazione di eliminazione di
scarti sulfurei e non, che include una fase di incenerimento di
rifiuti a fiamma costante, 24 ore su 24. La stessa compagnia
petrolifera stima che l’insieme di tutti i prodotti di scarto bruciati
sarà di almeno 80.000 chilogrammi al giorno, inclusi materiali
speciali e pericolosi.

4. La reazione chimica di base che usualmente si usa per desolforare
il greggio e che porta alla creazione di “zolfo puro”, è il processo
Claus, una reazione all’equilibrio, che non è mai completa al 100% e
che porta a scarti collaterali fra cui il pericoloso idrogeno
solforato (H2S), e che sarà bruciato. Tutti gli impianti che trattano
petrolio amaro come quello d’Abruzzo usano questa prassi, incluso il
centro Oli di Viggiano, in Basilicata. Fra l’altro i limiti legali in
Italia per l’H2S sono di migliaia di volte superiori a quelli
applicati in altre parti del mondo: per gli impianti Claus si possono
emettere anche 20 ppm di H2S , mentre, ad esempio, in Massachusetts il
limite tollerato in atmosfera è di 0.00065ppm. Quindi, tanto
“stringenti” i limiti italiani non sono.

5. Oltre agli scarti atmosferici, ci sono quelli in mare. Una delle
prassi più comuni nell’industria petrolifera è il rilascio a mare –
accidentale o volontario – di materiale di perforazione e di acque di
produzione, che non vuol dire acqua di ruscello, ma acqua inquinata
mista a residui petroliferi. Cifre ufficiali del governo di Norvegia
parlano di 3000 tonnellate l’anno di materiale di scarto rilasciate in
mare. Qualche anno fa vi fu uno studio del governo americano nel golfo
del Messico – GESAMP – dove si giunse alla conclusione che i tassi di
mercurio nei pesci catturati nei pressi delle piattaforme erano 25
volte superiori a quelli catturati più lontano. Simili studi norvegesi
e inglesi riportano situazioni simili. Nello specifico di Ombrina è
bene ricordare già che durante la fase di esplorazione temporanea nel
2008 comparvero delle macchie di idrocarburi in spiaggia, coincidenza
al quanto singolare. Infine, è importante ricordare che all’interno
della concessione sussiste una riserva di pesca, finanziata dall’UE:
chiudiamo le acque ai pescatori, e le apriamo ai petrolieri? Non è un
controsenso?

6.Dopo il disastro del Golfo del Messico, gli stati Usa che si
affacciano lungo il Pacifico e l’Atlantico hanno deciso di vietare
tutte le attività petrolifere nei loro mari: vige qui una fascia di
rispetto di 160 chilometri da riva che in Florida diventa di 200.
Questo perché si è capito che trivelle e qualità di vita sana non si
sposano. In Italia invece trivellazioni e piattaforme marine sono
previste a poche miglia dalle coste. Un incidente come quello della
piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, affiliata alla British
Petroleum, sarebbe un disastro di proporzioni inimmaginabili, anche
perché l’Adriatico è un mare chiuso con un ricambio d’acqua
lentissimo. I “trivellatori” però assicurano che non si verificheranno
mai incidenti. La stessa cosa avevano assicurato al governo USA i
dirigenti della British Petroleum.

I nostri petrolieri rispondono che le operazioni di estrazione dal
mare al largo delle coste romagnole non hanno mai creato problemi.
Falso! in Emilia Romagna alcuni tratti di fondali si sono abbassati
anche di due metri in 20 anni a causa delle estrazioni di idrocarburi.

E tutto questo in cambio di cosa? In Italia, le royalties in mare sono
del 4%. Leggendo i comunicati agli investitori di tutte le ditte
petrolifere che vogliono venire in Italia, si legge sempre la dicitura
“excellent fiscal regime” (Petroceltic) oppure “Italy’s tax regime for
oil and gas producers remains among the most favorable worldwide”
(Orca Exploration). Di contrasto, la Norvegia utilizza quest’altra
dicitura: “A causa degli straordinari profitti associati con
l’industria del petrolio, una addizionale tassa speciale del 50% è
applicata.” La Norvegia investe la maggior parte dei fondi petroliferi
in speciali fondi pensioni programmati per durare anche dopo
l’esaurimento dei giacimenti. Proprio come in Italia….

Ivo Bastioni



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