sabato 3 dicembre 2011

“Profumo d’Italia. Il Paese della continua emergenza rifiuti”: approfondimento con l’autore, Fulvio Di Dio

Talpa che scava nel mucchio dei rifiuti d'Italia - Foto di Gustavo Piccinini 

 Di ambiente e natura se ne parla davvero tanto in questo periodo, ma in molti casi mai con cognizione di causa: ecco allora un approfondimento con Fulvio Di Dio, legale ambientale, scrittore e gran conoscitore delle problematiche che stanno lentamente (nemmeno troppo) distruggendo il pianeta. Partendo dalla sua ultima opera, “Profumo d’Italia. Il Paese della continua emergenza rifiuti”, approfondiremo numerosi temi legati a questo mondo e questa società che non fa altro che speculare e sfruttare una risorsa, come l’ambiente, che dovrebbe essere rispettata e “usata” scientemente. Ma chi è Fulvio Di Dio? Ecco una breve scheda di presentazione. Fulvio Di Dio, esperto legale ambientale, da diversi anni pubblica numerosi articoli sulle più prestigiose riviste del settore (come Rivista Giuridica dell’Ambiente; Diritto e Giurisprudenza Agraria, Alimentare e dell’Ambiente; Ambiente & Sviluppo), principalmente in materia di diritto delle aree naturali protette, diritto degli animali e diritto delle acque. È stato uno degli autori del volume a cura di Lorenza Paoloni, Politiche di forestazione ed emissioni climalteranti (Edizioni Tellus, 2009), con il contributo dal titolo Il manifesto sul cambiamento climatico e il futuro della sicurezza alimentare. Per Editori Internazionali Riuniti ha pubblicato Acqua sporca e Profumo d’Italia (2011). - Partiamo parlando del suo ultimo libro, il problema rifiuti è al centro dell’attenzione, sia per la situazione insostenibile che si crea periodicamente a Napoli, sia perchè l’ambiente è, giustamente, sempre più un argomento impotante per l’equilibrio della società. Lei come pensa si possa tentare di risolvere questo problema? Scrivendo “Profumo d’Italia. Il Paese della continua emergenza rifiuti” (Ed. Internaz. Riuniti, Roma, 2011), è come se mi fossi trovato di fronte un muro di radicata, storica, complessità. Il temadella gestione dei rifiuti presenta, infatti, molteplici aspetti che interessano contestualmente, anche se da angolazioni e ottiche diverse, una pluralità di soggetti: i titolari delle aziende che devono rispettare le regole normative; i funzionari della pubblica amministrazione preposti al rilascio dei regimi autorizzatori e alle attività di monitoraggio; gli organi di polizia statali e locali, che devono eseguire i controlli in azienda e su strada, per verificare il corretto rispetto delle normative di settore. 

Ma che filosofia esprimono i nostri politici e i nostri imprenditori, rispetto la gestione dei rifiuti? Come ho dimostrato nel testo, si tratta, il più delle volte, di una gestione che tiene prioritariamente a produrre utili come una qualsiasi S.p.A., ritenendolo spesso motivo di orgoglio manageriale. E così, in molte parti d’Italia, a valle di ogni discarica tradizionale, nella quale sono versati i rifiuti urbani e industriali, la soluzione quasi obbligata è, ad esempio, l’inceneritore. È proprio così? Conviene davvero bruciare, oppure sono gli incentivi all’energia prodotta dai questi “mostri” (che solo in Italia vengono chiamati “termovalorizzatori”) a spingere in quella direzione? E si produce davvero energia bruciando rifiuti? E quale energia? 

Purtroppo, l’incenerimento “a prescindere” è non solo una grave infrazione di molte leggi europee e perfino nazionali, ma perfino un errore costoso in termine di sprechi energetici, denaro e inquinamento; e un comportamento pericoloso quanto a salute. Il tema della raccolta, del trasporto e dello smaltimento dei rifiuti implica quindi scelte di fondo che, in oltre un decennio di legislazione, nazionale e regionale, nessuna classe politica statale o regionale ha inteso fare. Come uscire da questa impasse? Nel libro inizio il mio percorso con la nozione di rifiuto, un concetto tipicamente umano. In natura, infatti, nulla si butta via, anzi tutto può e deve essere riciclato. Ogni elemento passa continuamente da una tappa a un’altra del suo ciclo naturale, senza raggiungere mai una condizione di inutilità, come quella che noi attribuiamo ai rifiuti. In natura (dove nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma), i rifiuti prodotti da certi organismi vengono sfruttati da altri organismi, in un ciclo di riutilizzo continuo. Quello che per una specie è rifiuto, perché ormai inutilizzabile, per un’altra specie diventa utile, prezioso e fondamentale per la propria vita. In questo “meccanismo naturale” ogni essere vivente fa parte di un sistema complesso di relazioni e di scambi con altri esseri viventi di altre specie. Nasce quindi la necessità di una diversa concezione degli scarti che segua, per quanto possibile, la logica adottata dai sistemi naturali. La strategia “Rifiuti Zero” sembra andare proprio in questa direzione, in quanto incoraggia la ri-progettazione della vita ciclica delle risorse, in modo tale da ri-utilizzare tutti i prodotti: lo scopo principe, evidentemente, è quello di ridurre drasticamente la quantità di rifiuti da inviare in discarica. Inoltre, il confronto tra i due modi di smaltire, il riutilizzo-riciclaggio e l’incenerimento (a valle delle discariche) è contenuto in un recente studio “Qualche proposta per controllare gli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti nella gestione dei materiali postutilizzo senza inceneritori“, di M. Bologna, una ricercatrice indipendente. Prevede di sostituire al forno quattro diversi impianti di trattamento meccanicobiologico (Tmb), che selezionano i rifiuti a freddo, riducendo dell’80/90% quelli da incenerire, per trattare secondo diverse tecniche e modalità la frazione organica, i rifiuti secchi, le plastiche, l’immondizia risultante dallo spazzamento delle strade. In tutti i casi si tratta di sistemi esistenti in commercio, non da inventare, disponibili perfino in Italia! Prevede inoltre di mettere in funzione un centro studi dei “materiali residui non riciclabili”, per riprogettare la produzione delle merci “al fine di raggiungere in tempi brevi l’obiettivo non utopico del riciclo totale”. Ridurre dell’80/90% i rifiuti significa rendere inutili gli impianti che, solo in Italia, si chiamano “termovalorizzatori”, che per funzionare a regime e rendere profitti hanno bisogno di bruciare masse consistenti, integrando anche i rifiuti con metano, per aumentare la temperatura, se il Cdr (combustibile da rifiuti) non ha sufficiente potere calorifico. 

Nel libro, evidenzio anche il fatto che i cinquanta o giù di lì termovalorizzatori operanti in Italia sono troppo spesso connessi nelle stesse imprese che gestiscono le discariche e la raccolta urbana, da non rendere sospetta la propensione alla raccolta differenziata che talvolta città e paesi mostrano, pur fingendo grande attivismo con gli inutili “cassonetti” disseminati senza regole lungo le strade. - Il binomio malavita – rifiuti è sulla bocca di tutti. Cosa si deve fare per colpire queste organizzazioni malavitose, affinchè non speculino più sull’ambiente? Diciamo che questa cosa è risaputa, ma sembra che nessuno faccia nulla di concreto, a mio parere, per risolvere la situazione. Come sappiamo, la presenza delle organizzazioni criminali non si manifesta più unicamente attraverso il compimento di delitti di sangue. I delitti “strutturali” di queste organizzazioni sono oggi quelli, silenziosi, della penetrazione nell’economia e nel mercato. La mafia si inserisce in qualsiasi traffico, lecito o illecito, purché sia redditizio e consenta di investire il denaro guadagnato illegalmente. Quest’opera di inserimento nel mercato ha trovato in alcuni settori economici di rilevante ricaduta ambientale, come il ciclo dei rifiuti, un terreno molto fertile. Come dice Roberto Saviano, “se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell’Everest, alto 8.850 metri”. Di fronte a disastri di proporzioni così immani, la mafie hanno saputo approfittare della carenza nel nostro ordinamento di efficaci norme incriminatrici, della eccessiva mitezza di alcune sanzioni penali in materia di tutela dell’ambiente e delle difficoltà di controllo da parte di regioni ed enti locali. D’altro canto, come cerco di illustrare nel libro, la stragrande maggioranza della classe politica italiana, di tutti gli schieramenti, ha dimostrato in tutti questi anni di non possedere adeguata mconoscenza e responsabile coscienza di quanto strategica e decisiva sia la politica dei rifiuti: sul piano della salute e della sostenibilità ambientale, della produzione e del consumo in modo sano, sobrio e pulito. Come sappiamo, la drammaticità della questione dei rifiuti non è limitata all’area napoletana e campana: è nazionale. 

Puntare prioritariamente sull’incenerimento e sulle discariche, da parte di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni, significa rimanere fermi al vecchio disastroso modo di produrre; significa aumentare l’inquinamento e peggiorare le condizioni climatiche ed ambientali; significa precludersi la strada verso l’innovazione tecnologica e lo sviluppo delle vere energie rinnovabili e pulite. Significa distruzione e malattie. Sul piano pratico e operativo, e quindi necessariamente giuridico, il problema andrebbe affrontato creando seri meccanismi di “tracciabilità” dei rifiuti stessi per conoscerne tutto: l’origine, la trasformazione e la destinazione finale. Occorre anche evitare espressioni ambigue nelle definizioni normative relative ai rifiuti ed eliminare le sacche di corruzione nei settori dell’amministrazione pubblica impegnati nei controlli. Si pensi che, sul piano legislativo siamo ancora fermi alla previsione del delitto di “attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti”, ex art. 53 del decreto Ronchi (attuale art. 260 del D.lgs. n. 152/2006), introdotto nel 2001, che consente di disporre in qualche modo degli strumenti legali per poter contrastare il fenomeno dell’inquinamento, in quanto detto reato, essendo punito con una pena fino a sei anni, consente attualmente le intercettazioni telefoniche. È facile comprendere come queste ultime si siano rivelate indispensabili per risalire l’intera filiera criminale, mettere con le spalle al muro i veri capi delle holding, insomma: colpire la testa e non solo le braccia. 

Uno dei pericoli è che con il disegno di legge sulle intercettazioni che, a fasi alterne, riemerge nell’agenda parlamentare, sarebbe nuovamente impossibile effettuare intercettazioni telefoniche per questo reato, se commesso da organizzazioni non mafiose, poiché la massima pena detentiva non supera i 10 anni. Ma il contatto con il “cliente” avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, con la mediazione di imprese “pulite”, che poi gireranno i rifiuti alle organizzazioni criminali. Senza intercettazioni si complicherebbero le indagini sulla fase iniziale, ovviamente la più importante per seguire tutto il percorso dello smaltimento illegale! Nel libro suggerisco anche qualche soluzione tecnico legale. Una normativa più specifica su questo tema sarebbe, infatti, ancora più utile, se si prevedesse, tra l’altro, l’introduzione nel codice penale di un Titolo VI-bis relativo ai delitti contro l’ambiente e contenente, tra gli altri, anche una nuova figura di delitto associativo. Secondo P. Grasso, attuale procuratore nazionale antimafia, l’attuale fenomeno della criminalità ambientale, sempre più criminalità d’impresa e di profitto, consiglia l’introduzione di una fattispecie di associazione a delinquere modulata sulla base di una tale specifica finalità. Da porre in raccordo con l’attuale disposizione di cui all’art. 260 (Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, tipizzando però gli specifici ruoli dei compartecipi del gruppo criminale e anche prevedendo un’aggravante per il caso di partecipazione associativa del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, al quale siano demandati compiti in materia ambientale. Inoltre, i collegamenti tra la criminalità ambientale e sodalizi di tipo mafioso giustificano l’introduzione di un’aggravante a effetto speciale. 

Sul piano legislativo, dunque, si devono fare ancora notevoli passi avanti. Si è anche persa l’occasione del recepimento delle direttive europee 2008/99 e 2009/123 in materia di ambiente, per una seria e rigorosa azione di contrasto al dilagare dei gravissimi fenomeni di criminalità ambientale che imperversano in Italia. A questo riguardo, lo schema di decreto legislativo (D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121), con cui il Parlamento ha cercato di recepire le direttive, se da un lato compie un notevole passo avanti con l’introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, dall’altro lascia colpevolmente immutati: tempi di prescizione dei crimini ambientali; sanzioni di tipo contravvenzionale; impossibilità di usare le rogatorie internazionali e gli strumenti legislativi tipici per contrastare la criminalità organizzata. E che cos’è questo, se non un chiaro tradimento dello spirito delle citate direttive, ossia quello dichiarato di assicurare adeguata tutela penale dell’ambiente, individuando quindi una lunga serie di reati ambientali da punire con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive? - Il futuro “ambientale” italiano come lo vede? Bisognerebbe “muoversi” per tutelarlo e rispettarlo, invece di rovinarlo e specularci solamente sopra. 

Con questo libro e prim’ancora con Acqua sporca. Il gorgo nero delle privatizzazioni (Ed. Riuniti, Roma, 2011), sono partito proprio dalle silenziose guerre che si combattono attorno alle sorgenti e al controllo dei nostri acquedotti, ossia dalle tubature oggi gestite soprattutto da multinazionali francesi (Suez e Veolia in primis). Sono così arrivato alla conclusione che i servizi idrici rappresentano un vero e proprio cavallo di Troia delle privatizzazioni in Italia e nel mondo. Questo perché, insieme a quello dell’acqua, anche altri settori strategici risultano appetibili per gli investimenti del grande capitale finanziario: e il grande capitale finanziario, si sa, decide le sue strategie di investimento in base ai suoi interessi. Mi sono quindi chiesto: chi gestisce la nostra la vita? Chi gestisce l’acqua quando si nasce, i rifiuti che produciamo quando vogliamo far morire le cose? La monnezza, che soprattutto in Italia è un bel business? Sono sempre gli stessi gruppi di potere, le stesse multi-utility, per le quali, volenti o nolenti, siamo clienti, da quando emettiamo il primo vagito a quando lasciamo questo posto nel mondo. Si tratta degli stessi gruppi di potere che, colpiti al cuore dalla vittoria al referendum 12 e 13 giugno per la ripubblicizzazione dei servizi idrici e dei servizi pubblici locali, si stanno in fretta e furia ri-organizzando. E proprio in questo ambito, infatti, come in quello dell’acqua e degli altri servizi di pubblica utilità, si stanno ridefinendo ambiguamente i confini tra pubblico e privato, tra Stato e mercato. Come espresso nel libro Profumo d’Italia, ci troviamo in un paese dove, non solo i servizi pubblici locali, ma proprio la “pubblica amministrazione” e la res publica vengono quotidianamente “privatizzate” e occupate da gruppi di potere che le usano, a propria discrezione, per consolidare potere, ricchezze e, in una (pseudo) democrazia, la propria base elettorale. Come il collegamento perverso tra la P4 e il Sistri (il sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti) sta a dimostrare. Fino ad arrivare all’ultima manovra finanziaria, con cui il Governo Berlusconi IV, ponendo la fiducia, svuota di contenuti l’esito del voto referendario del 12 e 13 giugno e mette a punto una norma (D.Lgs. 138/2011 “Ulteriori misure per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo”), che prevede la messa a gara dei servizi pubblici locali (ad eccezione dell’acqua), e quindi anche della gestione del ciclo dei rifiuti. Il precedente governo si è fatto dunque beffe, in modo palesemente incostituzionale, della volontà sovrana chiara, espressa solo pochi mesi fa rispetto al primo (e più votato) quesito referendario, che era contro il decreto Ronchi-Fitto. 

Non è un’esagerazione allora considerare il problema della gestione dei rifiuti come un punto di vista privilegiato, per osservare le relazioni tra la qualità delle istituzioni (locali e nazionali) e della società civile, nonché dei diritti di cui godono i cittadini. A Berlino, per fare un esempio, per gestire tutto il ciclo dei rifiuti urbani, è stata fatta la scelta di un’azienda totalmente pubblica. Che funziona. Ossia a Berlino non si punta ad avere alcun profitto ma solo a portare il bilancio in pareggio: il cittadino non si trova così costretto a finanziare gli utili del privato. Anche i cittadini italiani si erano chiaramente orientati in tal senso, affinché i trasporti pubblici ed i rifiuti, non meno dell’acqua, dovessero essere governati in modo ecologico, sociale e sostenibile, nell’interesse comune e non in quello dei soliti poteri finanziari. Sembra di trovarci come in un bollettino di guerra, che vede ogni giorno nuovi crimini contro l’ambiente e stravolgimenti della nostra Carta costituzionale. 

Io dico che dobbiamo “armarci” di idee e proposte, contro questa corsa al saccheggio, dove il confine tra le parti politiche si attenua fino a sparire. Contro questo assalto alla diligenza, senza precedenti, a cui stiamo assistendo. I 27 milioni di cittadini hanno voluto dare una indicazione chiara per una gestione dei beni sottratta alle dissipazioni del pubblico e ai profitti dei privati: sarebbe grave se il “decreto stabilità” servisse per archiviare uno dei pochi momenti in cui politica e cittadini si sono davvero riconciliati. Che ne pensa il nuovo governo Monti? (Fulvio Di Dio) Ringrazio personalmente l’autore per il tempo concesso a greenreporter.it, per la disponibilità e per la precisione e accuratezza delle risposte. Che dire…al prossimo libro! 

 Green Reporter - Di Davide Macor



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