giovedì 21 aprile 2016

L'Iran ancora ostracizzato dagli USA (malgrado l'accordo sul nucleare)




Il Reportage


“Non è cambiato nulla: anche se l’accordo sul nucleare è stato firmato, le sanzioni sono di fatto ancora attive”. K., giovane businessman di Teheran, che sperava di riprendere in pieno la sua attività di import-export con la fine dell’embargo, mi spiega sconsolato che l’Iran è ancora emarginato dalla comunità internazionale e che la sua economia rimane ancora “azzoppata”. Era questa l’intenzione degli Stati Uniti - con Hillary Clinton quale segretaria di Stato - quando sono state varate le pesanti sanzioni finanziarie contro Teheran per rispondere alla minaccia del suo supposto programma nucleare bellico.

Di per sé, nei mesi scorsi e subito dopo la firma a Vienna degli accordi, molte delegazioni da Germania, Francia, Italia e tante altre si sono precipitate in Iran, allettate da un mercato di giovani, un Paese bisognoso di nuove infrastrutture, desideroso di superare il ritardo inflitto con le diverse sanzioni che durano da quasi 35 anni. Ma nulla si muove.


“Se una ditta vuole firmare un contratto con un partner iraniano – spiega K. -  ha bisogno del sostegno di una banca europea o americana; ha bisogno di copertura da parte di una compagnia assicuratrice, ma nessuno di loro si muove per timore che gli Stati Uniti blocchino le transazioni finanziarie”.

L’uso del dollaro

Il problema sta nel fatto che gli Stati Uniti non hanno ancora tolto le restrizioni perché l’Iran possa usare il dollaro nei suoi contratti internazionali. In tal modo, molte banche e compagnie europee temono che riprendere i rapporti economici con l’Iran le esponga a multe da milioni di dollari da parte degli Stati Uniti, come avvenuto diverse volte in passato.

Alcuni giorni fa il portavoce della Casa Bianca ha voluto precisare che l’accordo sul nucleare non implica l’obbligo per gli Stati Uniti di far rientrare in pieno l’Iran nella comunità economica internazionale e che negli accordi di Vienna non è precisato che la caduta delle sanzioni comprenda anche l’uso del dollaro nei rapporti fra banche non statunitensi e Teheran. L’accordo però prevede la caduta delle sanzioni anche finanziarie e il reintegro dei rapporti bancari della Repubblica islamica con il resto del mondo. Secondo diversi esperti, l’interpretazione ristretta di Washington è come minimo contraria allo spirito dell’accordo e coincide di fatto con un procrastinarsi dell’embargo.

Le cifre fredde non esprimono tutta la fatica vissuta dagli iraniani, una popolazione di quasi 80 milioni, col 50% al di sotto dei 35 anni. I giovani sono disoccupati per il 20% e molti sperano di poter emigrare per trovare un futuro. Ma anche per chi rimane la vita non è semplice: “Molte persone che conosco e io stesso – mi dice Hassan, 40 anni - siamo costretti a trovare due o tre lavori per riuscire a mantenere la famiglia. Io faccio l’impiegato di giorno e alla sera lavoro in una cooperativa di meccanici. Anche mia moglie è costretta a lavorare: di giorno fa l’insegnante e la sera fa la pasticciera, cercando di offrire quanto cucina in casa a diversi negozi di pasticceria”.

Teheran è diventata come New York, una “città che non dorme mai”. Per la metropoli negli Stati Uniti questo titolo è dovuto al suo essere una capitale del mondo globalizzato, un motore della finanza mondiale; invece Teheran è così perché soffre di isolamento e questa prigione finanziaria a cui la costringe l’occidente spinge la gente a correre qua e là alla ricerca di nuovi piccoli introiti che garantiscano almeno l’affitto, il mangiare, la scuola per i figli.

La rivincita dei conservatori

Nei giorni scorsi il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, si è recata a Teheran per migliorare la collaborazione fra Ue e Iran e per spingere la comunità internazionale (leggi: Stati Uniti) a facilitare i commerci. Ieri John Kerry, segretario di Stato Usa e Javad Zarif, ministro iraniano degli esteri si sono incontrati all’Onu a New York per studiare le vie di attuazione dell’accordo e affrettare l’effettiva caduta dell’embargo.

Il tempo stringe dal punto di vista umanitario e politico. Il successo di Zarif (e del presidente Hassan Rouhani) nella firma dell’accordo è stato coronato anche dal successo dei riformisti nelle elezioni parlamentari e nell’Assemblea degli esperti. Ma questo non è piaciuto né al grande ayatollah Alì Khamenei, né alle Guardie della rivoluzione, i conservatori che grazie all’embargo si sono appropriati di molti spazi e monopoli nell’economia iraniana. “Il ritorno dell’Iran come partner della comunità internazionale – spiega un giornalista - significa per essi una costrizione a tenere presente l’opinione pubblica e un accettare la concorrenza negli affari. Essi vogliono evitare entrambe le cose”.Proprio per questo, dopo i risultati delle elezioni, la grande guida Khamenei ha cominciato a sferrare attacchi contro l’accordo, contro l’attuale presidenza, contro i riformisti e gli “aperturisti” prendendo come spunto proprio il fatto che l’economia non è migliorata e che perciò l’accordo non serve a nulla. “Secondo me – continua il giornalista – Khamenei sta preparando il ritorno di Mahmud Ahmadinejad, l’ex presidente che ha rovinato i rapporti dell’Iran con la comunità internazionale grazie alle sue minacce guerriere contro il mondo e contro Israele. Alle prossime elezioni presidenziali nel 2017, Rouhani potrebbe non farcela a rinnovare il suo mandato”.

La strana alleanza

Sembra quasi che vi sia un’alleanza fra Stati Uniti e fondamentalisti iraniani nel voler affossare l’accordo sul nucleare. E quanto più tempo impiega Washington a sbloccare i rapporti con le banche, tanto più forte diventa l’ondata conservatrice. In questo modo, un Paese che ha immense ricchezze e potenziali di crescita, verrebbe ridotto ancora una volta a uno straccio, con la popolazione costretta a sopravvivere, mentre i duri si arricchiscono con l’embargo.

Il problema non è soltanto l’Iran. Da quando Rouhani è presidente, l’Iran ha potuto utilizzare gli strumenti della diplomazia facendo sentire la sua influenza benefica nei problemi medio-orientali, dal Libano, alla Siria, allo Yemen. E anche se l’Arabia saudita continua ad accusare Teheran di finanziare il terrorismo (nascondendo il suo sostegno ad Al Nusra e allo Stato islamico), le proposte di Teheran finora sono state molto più pacifiche, moderate e aperte sia sulla questione della presidenza in Libano, sia sui dialoghi di pace per la Siria a Ginevra, sia sui dialoghi fra Houthi e governo in Yemen. La politica saudita è perlomeno scomposta, oltre che più violenta: minaccia di ritirare i fondi bancari dal Libano; costringe a interrompere i dialoghi a Ginevra; continua l’escalation militare contro gli yemeniti, sostenendo tutte le dittature del Medio oriente, meno quella di Assad.

Continuando l’embargo gli Stati Uniti sembrano appoggiare questo tipo di situazione. Secondo un’esperta del Medio oriente, Shireen Hunter, vi sono alcune ipotesi che spiegano questo atteggiamento degli Usa. Il primo è che gli Stati Uniti sembrano voler mantenere un Paese instabile fino a che non vi sia un cambio totale di regime, o –  forse ancora meglio per alcuni Paesi dell’area – fino alla divisione e allo sbriciolamento dell’Iran.

Il secondo motivo è che un Iran in mano ai conservatori fa paura ai Paesi limitrofi, che in questi anni si sono precipitati a comprare armi da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Si calcola che negli ultimi 3-4 anni l’Arabia saudita abbia comprato dagli Usa armi per almeno 90 miliardi di dollari; senza parlare di quelle vendute a Qatar, Emirati, Iraq, ecc.

Su un punto però Usa e Iran concordano: sulla lotta a Daesh, allo Stato islamico, per la quale Washington ha chiesto di fatto, anche se in modo indiretto, l’aiuto di Teheran, forse unico partner nella regione efficace nella lotta contro l’estremismo sunnita che minaccia l’Iran e tutte le capitali del mondo.
Bernardo Cervellera

Stralcio  da AsiaNews 

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