martedì 28 aprile 2015

Mobilità ed incompetenza - Dirigenti pubblici a tempo "determinato"


Valorizzare l'incompetenza con i turn-over del renzie

Una gara pubblica ogni tre anni - oppure ogni sei per i più “fortunati” - per ottenere gli incarichi, valutazioni basate su requisiti, parametri standard e obiettivi e mobilità più semplice fra le diverse amministrazioni e fra la Pa e il mondo privato.

Suona così la descrizione della vita futura del dirigente pubblico, prospettata dalla delega sulla riforma della Pubblica amministrazione che dopo una navigazione parlamentare non proprio fulminea arriva il 28 aprile 2015 al primo voto decisivo nell’Aula del Senato.

Per rispettare il calendario governativo, che prevederebbe approvazione finale e primi decreti attuativi entro l’estate, bisognerà accelerare parecchio, perché anche la Camera vorrà ovviamente dire la sua e una terza lettura a Palazzo Madama è quasi scontata.

In ogni caso, il testo che uscirà in settimana dal Senato indica in modo preciso la direzione che governo e Parlamento vogliono far imboccare alla riforma della Pubblica amministrazione, a partire dal tema più delicato dal punto di vista politico: le nuove regole per 41.500 dirigenti pubblici italiani.

Gli obiettivi

Le parole d’ordine evocano «mobilità » e « merito », come accade per ogni riforma della Pubblica amministrazione che si rispetti. Sta di fatto, però, che i tentativi portati avanti finora, compresi quelli più “aggressivi” previsti dalla riforma Brunetta, non sono andati a segno.

Al punto che il riassunto più efficace dei «nodi irrisolti» della dirigenza pubblica si legge nell’ultimo rapporto della Corte dei conti sul coordinamento della finanza pubblica: «Un idoneo sistema di valutazione della capacità manageriale, presupposto per la corresponsione della retribuzione di risultato, non è mai entrato a regime», scrivono i magistrati contabili, e nessun passo avanti è stato fatto nella ricerca dell’equilibrio fra «le esigenze di flessibilità organizzativa» e «l’effettiva autonomia gestionale dei dirigenti nei confronti degli organi politici ».

Tradotto, significa che i dirigenti, pur avendo pagato dazio per il congelamento di contratti e retribuzioni individuali, hanno continuato a ricevere i vecchi “premi” generalizzati a prescindere dai risultati raggiunti, e che il rapporto con la politica è tutt’altro che risolto.

Il ruolo unico

Proprio su questi due temi interviene il capitolo più discusso della riforma, quello che passa sotto l’etichetta di «ruolo unico» della dirigenza pubblica.

Sul piano operativo, in realtà i «ruoli unici» sono tre, dedicati rispettivamente ai dirigenti statali, regionali e degli enti locali, ma nelle intenzioni della riforma le tre strade saranno disciplinate da regole identiche e dovranno avere molti incroci per permettere il passaggio da un settore all’altro.

L’obiettivo, sul quale lo stesso ministro della Pa e della semplificazione, Marianna Madia, ha insistito più di una volta, è quello di creare il «dirigente della Repubblica », abbattendo le barriere che trasformano in compartimenti stagni i vari settori dell’amministrazione.


 Gianni Trovati

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